FRANCESCO PUPPI SI RACCONTA

A cura di Maurizio Scilla

Francesco Puppi, 33 anni, plurimedagliato nella corsa in montagna, argento ai mondiali di trail corto in Thailandia nel 2022. Ottimi i risultati ottenuti l’anno scorso. E’ tornato dalla “spedizione americana”  con due vittorie e record a Chuckanut 50k e Lake Sonoma 50m.
Nella seconda parte della stagione ha raccolto un grande secondo posto alla OCC, ha vinto la 50k Julian Alps by UTMB e ha chiuso l‘annata vincendo per dispersione il Campionato Italiano Ultra Trail alla UTLO.

Francesco oltre ad essere un campione, tra le varie cose è coach, autore di un podcast molto conosciuto (Any Surface Available), co-fondatore della Pro Trail Runners Association e molto altro, è una delle “voci” più interessanti nel mondo del trail/corsa in montagna: abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo.

L’anno scorso sei stato protagonista negli Stati Uniti con due vittorie, cosa hai più apprezzato in quei mesi negli States? Pensi di tornarci?

Il fatto di passarci del tempo, tanto tempo. Non sono andato negli Stati Uniti per fare una gara e tornare a casa subito dopo, volevo avere tempo di capire dove mi trovassi, perché le cose sono come sono, perché le persone fanno trail in un modo che, visto da qui, sembra un po’ diverso rispetto a come lo facciamo noi. Ho trascorso una settimana a Seattle e dintorni, sono stato ospite per tre giorni da Kaytlyn Gerbin a Issaquah, mi sono preso il tempo necessario per esplorare Bellingham e capire perchè Chuckanut è Chuckanut. Ho trascorso tre settimane a Boulder, dormendo per un po’ sul divano di Moises Jimenez, per il resto del tempo nell’appartamento di Matt Daniels a Superior. Non sono stato a Boulder come turista: ho vissuto la città e la sua comunità, mi sono allenato, ho lavorato, ho condotto la stessa vita di chi a Boulder ci vive. Prima di Lake Sonoma sono stato a trovare il mio amico Leo Pershall che abita a Fairfax, nella Marin County, vicino a DbO. Sono i luoghi di Dipsea Race, della ex TNF50, di Mt Tam e di San Francisco Running Company, giusto per dare delle coordinate che credo siano familiari. La comunità di Marin County è tra le più interessanti e attive nel panorama trail, ed è tra quelle che più hanno contribuito a scrivere un pezzo di storia del nostro sport.

Uno degli aspetti che apprezzo degli Stati Uniti è il contrasto tra la diversità e l’omologazione: entri in un Chipotle a Seattle e sembra identico a quello che potresti trovare a Boston; eppure, il contesto, le persone, l’ambiente e la comunità che lo circondano sono completamente diversi. In generale, c’è maggiore libertà di fare ciò che si vuole, si avverte meno giudizio da parte degli altri rispetto a qui: se ti piace correre le 50 miglia, lo fai, se ti alleni ma preferisci gli FKT, ti dicono that’s great. Le gare sono competitive sia per gli élite che per chi arriva nella pancia del gruppo, ma l’aspetto comunitario e la condivisione rimangono centrali nell’esperienza di tutti i partecipanti.

Ci tornerò senz’altro, probabilmente abbastanza presto. Gli USA rimangono il paese che più ho frequentato e che conosco meglio al fuori dell’Italia, anche per il fatto che ci ho vissuto per un intero anno (a 17 anni).

Si parla tanto di possibilità di inserimento nelle Olimpiadi per il trail. Tu cosa ne pensi? Non si rischia di snaturare questo sport come sta succedendo con lo ski-alp?

Il rischio mi pare evidente, mi dispiace molto per ciò che sta succedendo allo sci alpinismo. Ha ragione Emelie Forsberg: bisognerebbe inventare un altro nome per la disciplina che debutterà alle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026. Credo che la questione cruciale sia non tanto se sia giusto o meno che il trail venga inserito nel programma olimpico, ma come, ovvero quale format e quale definizione tecnica vogliamo dare al trail alle Olimpiadi. Se come comunità, attraverso gli organi istituzionali (WMRA, ITRA, e soprattutto World Athletics) che se ne occupano, non riusciamo ad essere sufficientemente chiari su cosa sia per noi il trail, sulle caratteristiche tecniche della disciplina e sulle red lines che non vogliamo vengano oltrepassate, il rischio è che ciò che andrà alle olimpiadi sia un format costruito principalmente per le TV, magari su percorsi artificiali, in luoghi facilmente accessibili al pubblico e alle troupe televisive, deciso da persone che di trail non hanno quasi mai sentito parlare. Sarebbe bello portare alle Olimpiadi un format analogo a quello dei mondiali, con quattro discipline abbastanza rappresentative di ciò che sono il trail e la corsa in montagna allo stato attuale, ma non credo sia una prospettiva realistica, semplicemente perché nel programma olimpico non c’è spazio per tutte. Ciò che andrà alle Olimpiadi sarà verosimilmente un format di gara ibrido tra la corsa in montagna classica e lo short trail, probabilmente con una durata di circa 2h, in stile Golden Trail Series/WMRA World Cup. Mettere tutti d’accordo non è facile, a partire dal nome (trail/mountain running), ma come  Pro Trail Runners Association stiamo cercando di tenere fede ai nostri principi e fare in modo che vengano rispettati.

La professionalizzazione e l’evoluzione dello sport sollevano una serie di questioni. A mio avviso il problema su cui dovremmo porre più attenzione è la standardizzazione di tutte le competizioni secondo lo stesso modello, in cui le discipline più tradizionali, più vicine all'essenza e alla tradizione del nostro sport, vengono relegate a posizioni marginali nel calendario a causa di rigide regolamentazioni e interessi economici. Questo porta a rendere il trail uno sport sempre più artificiale. In altre parole, dovremmo sforzarci di preservare la diversità e la varietà del trail running che sono due degli aspetti che a mio parere lo rendono interessante.

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Per chi non avesse approfondito la cosa, puoi spiegarci la tua scelta di non rinnovare con Nike?

Parto sottolineando che l’esperienza in Nike è stata una delle più positive, istruttive e appaganti della mia vita, dentro e fuori dallo sport. Non sarei potuto diventare l’atleta che sono senza i 4 anni che ho passato in Nike, senza l’ispirazione che alcuni dei suoi atleti mi hanno dato, senza l’idea, la visione che Nike rappresenta, senza molte delle persone con cui ho lavorato. E’ sempre più facile valutare a posteriori un percorso concluso, ma sono davvero grato per la possibilità che ho avuto di entrare a contatto con la realtà di Nike, di andare per due volte a Beaverton, di aver cercato di lasciare un segno in Nike Trail. E’ cosa abbastanza folle ora che ci penso, non solo avere avuto scarpe e vestiti gratis, ma essere stato pagato per fare quello che più mi piace dal brand sportivo più famoso al mondo…

Tuttavia, alla fine del 2024, ho capito che Nike non rispondeva più pienamente alle mie esigenze e a ciò che davvero cerco in questo sport. Ero in una posizione privilegiata che mi permetteva di scegliere, una fortuna che, a ben vedere, è il risultato del lavoro mio e di tutte le persone che mi hanno supportato lungo il percorso. In effetti diversi brand mi hanno cercato e mi avrebbero voluto nei loro team. Mi sono sentito più affine alla visione, agli obiettivi e ai programmi di altri brand, oltre alla parte economica che ha avuto comunque il suo peso nel determinare la mia scelta finale. Nike non è stata in grado di spiegarmi in maniera convincente cosa vuole costruire in questo sport nei prossimi 3-5 anni, come intende farlo, e come io possa essere parte integrante di questo progetto.

Ho espresso alcune critiche nei confronti di Nike, il post sullo spot “winning is not for everyone” è un esempio, credo abbia fatto parecchio discutere. Molte persone si sono trovate d’accordo con me e mi hanno supportato; è stato bello ricevere un messaggio di sostegno da Kara Goucher. Altri invece mi hanno scritto che dovrei stare zitto e pensare solo a correre, come se in quanto atleta non avessi pensieri, emozioni e sentimenti. Penso che non dovremmo avere paura ad esprimere le nostre opinioni, in maniera chiara e sempre rispettosa, ma quando serve incisiva. Siamo troppo abituati al pensiero duale, vediamo la realtà come bianca o nera, perdendo così molte delle sue sfumature. Agli occhi del pubblico sembra che dobbiamo aderire completamente a un progetto oppure, al contrario, che non possiamo esprimere critiche su alcuni suoi aspetti. Ripeto: sono grato a Nike per la possibilità che mi ha dato di fare l’atleta professionista e di rappresentare il brand per cui quasi ogni atleta sogna di poter correre. Questo non significa che io abbia spostato l’ideologia di Nike nella sua totalità o che sia stato d’accordo con ogni sua scelta. Mi pare evidente, eppure, non so bene per quale motivo, mi sembra che spesso in quanto atleti siamo tenuti rispettare degli standard diversi rispetto a quelli delle altre persone.

Cosa ti ha convinto a scegliere Hoka?

Mi sono sentito apprezzato e valorizzato come persona nella mia interezza. Non solo come atleta in grado di portare risultati ma anche in relazione a ciò che faccio per la comunità del trail e alla persona che sono, con i miei pregi e difetti, le mie difficoltà e incertezze. Credo nel valore del progetto che Hoka ha in mente per il futuro a medio/lungo termine e penso di poterne fare parte, condividiamo una visione simile. Hoka è un brand che ha radici profonde nel trail running  ma sta anche lasciando un segno significativo nello sport e nella comunità del trail in generale.

Sei curioso di vedere com’è condividere gare, training camp in un team, tu che non hai avuto occasione finora essendo stato “one-man team”?

Direi di si, è uno degli aspetti che più mi motiva dell’essere parte di un nuovo team. Voglio dire, chi non vorrebbe allenarsi con Jim Walmsley o Judyth Wyder, conoscere meglio Vincent Bouillard, fare un training camp insieme ad Adam Peterman..

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Cosa possiamo fare in Italia per ridurre il divario dalle altre nazioni a livello di trail/ultratrail?

Serve una massa critica di atleti che abbiano voglia di investire tanto tempo ed energie nella disciplina. Viste le opportunità di farlo in maniera seria e professionale al giorno d’oggi, mi sorprende sempre constatare il fatto che ci siano relativamente poche persone disposte a cogliere questa opportunità. Prendiamo il mio caso: non credo di possedere un enorme talento, di certo mi ci sono dedicato parecchio, mi sono allenato tanto e forte per molti anni, ed è stato questo a fare la differenza sul lungo periodo. Se ci fosse una maggiore densità di atleti che si allenano seriamente, probabilmente sarei uno dei tanti. Credo che il punto sia proprio questo: rispetto ad altre specialità dell’atletica, nel trail abbiamo costruito una serie di sovrastrutture - dall’attenzione esagerata ai materiali, agli sponsor, ai social, fino alla ricerca di una non meglio definita fama da eroe locale - che in realtà hanno un impatto minimo sulla performance, quando non risultano addirittura controproducenti. Subiamo inoltre un ritardo dal punto di vista tecnico rispetto ad altre discipline più evolute: negli ultimi anni avere un coach e seguire un programma di allenamento strutturato è diventato quasi cool, mentre in passato parlare di programmazione, periodizzazione e farsi seguire da un allenatore era visto con diffidenza e tendenzialmente considerato da sfigati.

Credo sia necessaria una riflessione più ampia sugli obiettivi che vogliamo perseguire. Non possiamo avere tutto contemporaneamente, perché lo sport di alto livello non funziona così. Se scegliamo di gareggiare ogni weekend, se il principale criterio di valutazione di un atleta diventa la distanza più lunga che ha corso – aspetto su cui i media hanno una grande responsabilità – o la lista di sponsor che lo supportano, e se evitiamo sistematicamente il confronto con chi corre più forte, difficilmente potremo competere a livello internazionale. La vera questione è allenarsi al livello richiesto, sviluppare la capacità di produrre qualità in allenamento e focalizzarsi sugli aspetti davvero determinanti per correre forte: il volume, lo stile di vita, la continuità degli allenamenti e la gestione dello stress. Al momento, però, sono ancora pochi gli atleti che lo fanno davvero. Tutto questo vale soprattutto per le specialità di ultra trail, visto che nelle distanze sub ultra e nella corsa in montagna abbiamo già dimostrato di essere competitivi a livello internazionale e ci sono già molti atleti italiani che si confrontano con i migliori al mondo e interpretano l’attività in maniera seria e professionale.

Una cosa che potremmo tutti quanti sforzarci di fare meglio è lavorare con i giovani, offrendo loro opportunità per avvicinarsi al trail, conoscerlo ed apprezzarlo. Chi inizia a fare trail lo fa quasi sempre dopo un percorso in altre discipline, è molto raro che un ragazzino inizi a fare trail come prima attività sportiva, mentre è molto più comune che provenga dall’atletica leggera, dallo sci alpinismo, dal ciclismo, dalle camminate in montagna. Dovremmo cercare di ridurre le barriere di accesso perché, per sua natura, il trail non è uno sport immediato da approcciare.

Non credo sia un problema relativo alla federazione, la nostra è una di quelle che più investono sugli atleti e sull’attività tecnica (raduni, eventi, supporto sanitario, test di valutazione..), soprattutto se paragonata ad altre nazioni che ricevono molto meno supporto.

Cosa ti piace e cosa modificheresti delle UTMB World Series e delle Golden Trail Series?

Le Golden Trail Series sono al momento il circuito con la più alta densità di atleti élite, le gare sono spettacolari e divertenti, il livello è davvero molto alto. Mi piace come abbiano reso reale la prospettiva di un gruppo di atleti più o meno appartenenti alla mia generazione di fare attività da professionisti. Al momento sembrano un po’ in crisi, credo che dovrebbero riavvicinarsi all’idea originale di quando il progetto era partito, nel 2018: riunire le 6 gare di short trail più iconiche e competitive al mondo in un circuito con i migliori atleti. La ricerca esasperata di visibilità, click e views, l’evoluzione verso un format sempre più artificiale pensato per i live streaming e per attrarre l’interesse di un pubblico che ancora fatica a raggiungere i numeri sperati, la decisione inserire nuove gare dal valore discutibile per atleti e fan, sembrano ignorare un aspetto fondamentale: sono Zegama, Sierre-Zinal e Marathon du Mont Blanc ad aver dato prestigio alle Golden Trail Series, e non il contrario. Inoltre, un modello di business forse troppo dipendente dagli investimenti e interessi di Salomon ha progressivamente intaccato la popolarità della serie, di certo l’hanno messa di fronte ad una serie di problemi che spero riesca ad affrontare nel migliore dei modi nel futuro immediato.

Quello che apprezzo di UTMB è la sua capacità di coinvolgere sia gli atleti élite che gli amatori, un aspetto che ritengo sia una delle chiavi del suo successo. Nonostante qualche passo falso penso che gli aspetti positivi della sua crescita superino di gran lunga quelli negativi. Di UTMB modificherei le regole attualmente in vigore per accesso alle finals per gli élite, diminuirei il numero di gare che fanno parte della serie, farei in modo che venisse data maggiore attenzione e supporto ad alcune categorie di atleti. Per un atleta europeo o nordamericano è relativamente facile qualificarsi a UTMB, iscriversi alla gara, viaggiare e prendere alloggio a Chamonix, per un atleta africano, asiatico o sudamericano lo è molto meno. Credo che negli ultimi due anni, anche grazie al lavoro che abbiamo svolto come PTRA, UTMB abbia rivisto molte sue posizioni, basti pensare alla questione antidoping, ai prize money, alla partnership con Dacia, agli sforzi per la parità di genere e coverage… E’ un work in progress, ma è incoraggiante vedere che stanno lavorando in larga parte per il bene dello sport, non solo per fare del business.

Parlaci dei tuoi progetti

Domanda un po’ generica. Ho tanti progetti, alcuni realizzati, altri che per ora ho solo nella mia mente. I due podcast che curo e la Pro Trail Runners Association assorbono la maggior parte del tempo extra allenamento. Sono abbastanza contento del ruolo che “Any Surface Available” si è ritagliato tra le voci che raccontano il nostro sport, almeno in Italia. Così come della crescita della PTRA e del fatto che sia un’organizzazione riconosciuta e rispettata a livello mondiale. Ne fanno parte oltre 250 atleti da oltre 40 paesi del mondo, lavoriamo con tutte le federazioni e i circuiti: quando hanno un problema o un tema da discutere vengono da noi per consultarci. Mi piacerebbe che sempre più atleti si unissero alla PTRA e si interessassero a ciò che facciamo, credo sia un buon modo prendersi e cura dello sport che amiamo. Non siamo un gruppo esclusivo o elitario, anche se per qualche motivo mi pare che in Italia sia percepito un po’ così, visto che ne fanno parte solo 7 atleti, sebbene molti di più avrebbero i requisiti per farlo. Oppure non saprei, magari è per disinteresse. Se state leggendo e siete interessati a unirvi alla PTRA, potete farlo qui:
https://trailrunners.run/join/

In realtà in quanto atleta élite, uno degli aspetti in cui mi sento di poter migliorare è la capacità di dire no alla maggior parte delle opportunità che mi si presentano, per non disperdere troppe energie e affinché non interferiscano eccessivamente con la mia routine di allenamento.

Hai detto che ti piacerebbe allungare le distanze, quali saranno gli obiettivi 2025?

Annuncerò a breve il mio calendario per il 2025. La stagione partirà da Transgrancanaria Marathon; il filone di gare sulle isole (Transvulcania, Transgrancanaria, MIUT) ancora mi manca ed è dalla finale delle Golden Trail Series 2021 che non vado alle Canarie, luogo piuttosto magico. Verso fine aprile ci sarà spazio per una nuova esperienza su una gara lunga, credo di volermi spingere un po’ oltre quanto provato lo scorso anno. La seconda parte di stagione è più definita, con tre grandi obiettivi, ognuno con un significato tecnico e personale molto preciso: la nona volta a Sierre-Zinal, la prima a CCC e i mondiali di trail di Canfranc, in Spagna, in cui sarò impegnato sulla distanza lunga (82km +5400m). La combo CCC + mondiali a distanza di quattro settimane presenta diverse incognite ma è una sfida che ho voglia di affrontare davvero. So che sarà molto difficile riuscire ad esprimermi al massimo in entrambe le gare, ma vorrei provarci, se la federazione approverà questa scelta tecnica. Dal punto di vista personale è un challenge molto motivante, un problema affascinante da affrontare, un’equazione complessa da risolvere.

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